Per l’immaginazione di Adolf Vallazza il legno è il “mezzo” naturale di realizzazione, di concretizzazione vitale. Un “mezzo” che gli è naturale come può esserlo uno strumento di scrittura quotidiana, direi di più: il “mezzo” stesso entro il quale riconoscersi, esprimendo l’intimità di motivazioni, pensieri, sentimenti, umori, angosce, sogni, speranze, della propria esistenza personale. Giacché il legno, per Vallazza, non è solo natura, nell’ovvio generale senso di essere legno una materia per eccellenza naturale, di essere di per sé insomma segno e memoria di natura. Ma è parte della “sua” natura, della natura stessa della propria terra gardenese. In certo modo di quella terra è la materia quotidiana, di difesa, di lavoro, di sopravvivenza, di creatività. Un quotidiano riscontro dell’immaginazione e dei sensi. Ma il legno, per Vallazza, è anche storia, ed esattamente storia di quella stessa propria terra e della sua cultura antropologica. Storia di un’attività costruttiva e di creatività artigiana, di edifici, di oggetti, di icone, memoriali e votive, che prima d’essere – come nel nostro tempo – vicenda di una produzione d’esportazione, è soluzione di tutti i problemi vitali: costruzione appunto del proprio rifugio, dei propri utensili, fino a quella delle icone dei propri culti e delle proprie memorie. E il legno è anche la materia ancestrale del lavoro, per Vallazza, della propria famiglia.
E dunque una materia entro la quale riscontrare affettivamente una fedeltà, attraverso la quale esprimere una continuità, un tramando ancestrale secolare. Ma questa percezione della materia antica, familiare, è per Vallazza non l’occasione di un’adeguazione passiva, ma partecipazione progettualmente attiva. Voglio dire che per lui il legno è anche la cultura del legno al più alto livello dell’elaborazione creativa del nostro tempo. È anche un’avvertenza delle possibilità di quella materia, antica e familiare, al diverso livello di storia delle forme, cioè dell’elaborazione formale più alta della comunicazione iconica: esattamente della storia della scultura moderna. La quale ha avuto nel legno alcuni dei suoi momenti più alti e di maggiore intimità creativa: da Ernst Barlach ad Arturo Martini, a Constantin Brancusi, da Pericle Fazzini ad Étienne-Martin, per ricordare soltanto qualche vertice. Essendo cioè il legno una delle materie primarie, nuova e corsiva, della moderna scultura “storica”, come d’altra parte lo è tuttora offrendosi a nuove possibilità di pratica creativa. Attraverso una serie di passaggi creativi, che, se per un aspetto, dal suo personalissimo percorso dall’inizio degli anni Settanta a oggi, in certo modo sono relegati in una sorta di “preistoria” della sua scultura attuale, rimangono tuttavia per me, non soltanto estremamente significativi della realtà profonda di una vocazione indubitabile, ma costituiscono anche, in momenti diversi, dei fatti creativamente di per se stessi rilevanti, e da non dimenticare, il senso complessivo del lavoro di scultore in legno di Vallazza, da trent’anni a questa parte, mi sembra infatti proprio un consapevole caparbio sforzo di portare una materia di umile (quanto necessario) rapporto quotidiano artigiano, ad un livello, il più alto, di pura creazione, cioè di cultura dell’immagine. In questa tensione indubbiamente può aver concorso la complessità della formazione di cultura figurativa di Vallazza, non soltanto di abilità e virtuosità artigiana nel legno, ma di ordine pittorico, cioè di una pratica essenzialmente comunicativa dell’immagine.
E, se la sua pittura, di particolare intensità espressionista fra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, quindi, a metà di questi, più strutturata su un’impalcatura compositiva direi d’eco lontanamente cubista, finisce per essere un’attività a margine della sua maggiore di scultore, conferma comunque l’ampiezza della vocazione all’immagine di un artista che cerca attraverso l’espressione figurale una propria identità, nelle sue più intime motivazioni di rapporto con gli altri, con la natura, con un mondo sociale, con la storia. Sostanzialmente per la scultura di Vallazza il legno è la materia essenziale, nella sua molteplice qualità e origine. Voglio dire che è un legno individuato, soprattutto quando è un legno che ha già la sua vicenda d’uso, come quello che recupera dalle vecchie baite distrutte. Legno lavorato dall’uomo, legno consumato dal tempo. Legno che ha una sua storia, oltre che alludere ad una storia di pratiche antropologiche valligiane, persino ad una realtà ecologica. È dunque materia ricchissima che Vallazza impiega proprio, nel suo più tipico lavoro fortemente totemico, dall’inizio degli anni Settanta, con una accentuatissima sensibilità materica, attenta cioè a non reprimere ed annullare le virtualità espressive delle materie lignee prescelte, ma, al contrario, ad esaltarle impossessandosene e riferendole al proprio caratterizzato disegno iconico-formale. Della materia lignea Vallazza perciò utilizza le venature, le tarlature, i segni violenti del tempo; non solo: ma anche la consistenza materica differenziata, e persino il colore. E la sua scultura nasce da un fitto contrappunto strutturale di elementi matericamente differenziati, pur al di dentro del grande orizzonte ligneo, totale, e imprescindibile, direi.
Tutta l’arte di Adolf Vallazza si sviluppa lungo un procedere duplice e ambivalente: da un lato l’andamento narrativo che affonda le proprie radici nelle suggestioni antropologiche delle saghe dolomitiche, dall’altro lato la costante e infaticabile sperimentazione materica che indaga la cromatura e il suo bagaglio cromatico. Eppure, tale dicotomia non mostra confini, non è distinguibile all’interno di un’opera che non si presenta mai come completamente definita, ma esige uno sguardo attento a cogliere quei minimi sussulti che sconcertano la narrazione e scuotono il linguaggio. Come in una continua “zoomata” l’arte di Adolf Vallazza affonda nella ruvida pelle di una materialità esoterica o si spalanca ai sogni visionari di una fantasia millenaria. La stessa forza che assorbe lo sguardo nella rugosità della superficie, proietta l’immagine in una dimensione irreale e atemporale dove il racconto si diluisce e si confonde con la leggenda. In tale prospettiva e con tali presupposti non è facile definire i richiami e i rimandi di una ricerca artistica come quella di Adolf Vallazza; certamente non possono sfuggire colti riferimenti che conferiscono a questo lavoro un ulteriore supporto teorico e una solida trama evocativa. Così, le sofferte corrosioni di cera di un Medardo Rosso, con le loro liquefatte deformazioni, suggeriscono affascinanti parallelismi con la drammaticità di una essiccazione materica che caratterizza le sculture di Vallazza. ma anche l’essenzialità romanica delle prime ceramiche di Arturo Martini non possono non trovare analoghe atmosfere nel raffinato primitivismo ligneo dello scultore gardenese.
I riferimenti si fanno via via più contemporanei: gli incastri giganti dell’austriaco Fritz Wotruba, la monumentalità di Pino Castagna, l’energia di Umberto Mastroianni, la sacralità naturale degli igloo di Mario Merz. Le migliaia di querce che Joseph Beuys pianta a Kassel, affiancate da giganteschi monoliti, non si discostano concettualmente dall’idolatria della natura che Vallazza compie con i propri totem. Le opere di Adolf Vallazza sono protagoniste consapevoli del loro tempo, solide e forti nella struttura recitano il loro ruolo con la determinazione di chi conosce la complessità del proprio ambiente e la difficoltà dell’incedere. Testimoni arcaici di una fantasia visionaria e ancestrale, questi totem, questi uccelli irreali, questi troni improbabili di barbara robustezza, dichiarano con voce chiara la loro forza espressiva e il loro coraggio artistico. Nelle prime opere degli anni Sessanta, l’elemento narrativo dominava, non senza eleganza e raffinatezza, l’intero procedere scultoreo. L’aspetto linguistico era più rivolto al sostegno dell’impianto recitativo che non alla ricerca di una propria fisionomia sperimentale. In quei lavori, una scarna ma essenziale figurazione sostiene l’intera impaginazione delle opere: figure spettrali, esistenzialmente assottigliate come nei bronzi di Alberto Giacometti, suggeriscono, attraverso un costante processo di scarnificazione, un’indagine interiore rivolta all’anima segreta delle figure. Esili personaggi sospesi fra le memorie dei graffiti rupestri e le più colte suggestioni filosofiche; opere che risentono di un forte bisogno descrittivo ma, nello stesso tempo, suggeriscono esiti scultorei di straordinaria intensità espressiva.
Ben presto il rigore linguistico, educato ad una costante semplificazione materica, sovrasta il racconto; l’essenzialità produce un sottile barocchismo che sposta completamente l’ottica dell’analisi. Al dissolversi dell’immagine si dipana un sorprendente mondo visionario; la materia scopre nel proprio corpo un virtuosismo espressivo che la staticità della figura lasciava solo supporre. Un alone evocativo si è via via sviluppato nelle opere di Adolf Vallazza contribuendo a definire quell’astrazione della materia che sembra oggi caratterizzare queste sculture. I Totem di Adolf Vallazza sintetizzano un ampio percorso scultoreo, un itinerario che attraversa e metabolizza le più importanti esperienze artistiche degli ultimi decenni, consegnandoci un artista di grande statura qualitativa e di una forte personalità espressiva. Le sue sculture rappresentano un’importante pagina della ricerca plastica contemporanea, evidenziando quella spiritualità creativa delle zone alpine capace di conservare integro il proprio bagaglio storico anche procedendo costantemente nel futuro. L’arte di Adolf Vallazza appare colta e raffinata nell’agire compositivo, e nello stesso tempo, rude e impetuosa nel suo fare creativo, un’arte che svela la propria complessità nell’emozione dell’intreccio fra narrazione fabulatoria e analisi linguistica.
La novità, per certi versi assoluta, della scultura di Vallazza, che sembra addirittura scordare la gloriosa aureola della sua valle, raggiunge una netta svolta spirituale e formale nell’ultimo ventennio. La rivoluzione, che non ha precedenti nella tradizione culturale gardenese, fu graduale e convinta. Si affacciò con i “Don Chisciotte” che sono i padri di tutti i totem di poi. I “periodi”, così li ama definire il maestro quasi per misurare la metrica del suo cammino artistico, si susseguono con singolare cadenza ordinata: dal “periodo” dedicato alla “vita contadina”, a quello dell’iconografia religiosa (Vallazza partecipò con significative opere a diverse mostre d’arte sacra), a quello espressionistico con reminiscenze, istintive, della grande lezione medievale, e su su, attraverso il mondo dei torsi, e dei robot alla perfezione dell’informale, che non ha esempi, che è vallazziana. Il 1973 e il 1975 sono gli anni delle composizioni e dei gruppi di composizioni astratte, alludenti ad azioni umane o ad animali, insetti, sauri, specialmente uccelli da preda. Vi prevalgono la concezione geometrica, l’allusione esotica alle aquile dei totem indiani, ai gufi dei segreti della foresta o dei masi di montagna che con il loro grido notturno annunciano avversità, a reminiscenze arcaiche trasfigurate dall’impeto onirico. Un mondo magico, costruito seguendo la storia del legno, delle baite, delle stube decorate che assistettero al viaggio delle generazioni, dei racconti valligiani. È infatti, il legno “storico” che incanta il maestro. Il mondo totemico, perfezionato dalla fantastica geometria degli uomini umani e degli uccelli misteriosi è un prodotto di questo incanto.
Una mattina, mentre si recava allo studio, s’imbatté nello scarico del legname ricavato dalla demolizione di un fienile di un venerando maso gardenese. Pensò con amara malinconia alle testimonianze di stirpi contadine che sarebbero state di lì a poco massacrate dalla scure e ridotte in cenere dal fuoco delle stufe. Sostò a frugare nell’informe coacervo fra la meraviglia dei compaesani. Gli capitarono in mano sapienti tracce tecniche costruttive, di usura, ingenui ornati popolari alludenti al mutevole temperamento del tempo, alla vita quotidiana di ignote genti senza volto, partita fra il lavoro dei campi, del bosco, del pascolo, del maso, la compartecipazione alla comunità, religiosa e civile. Lo colpirono la tenacia e il tribolo della vita delle piante vissute chissà quanti anni, o secoli fa, impressi nel legno a cui il lavoro umano aveva inferto rilevanza. Il disegno dei nodi, il riferimento delle venature, l’ordine degli anelli vegetazionali, gli antichi alburni corrosi dalle stagioni, il colore, soprattutto il colore, le sfumature del colore, proprietà naturale di ogni essenza, caricati o blanditi dal tempo e dal lavoro umano prolungato nel tempo. Un intero, enorme incunabolo di legno, un insieme di sistemi, di suoni di risonanza armonica orchestrata dalla vita.
Prima di allora il legno era per Vallazza il mezzo materico per esprimere un’idea, un sentimento, alla stregua della creta, della cera, della plastilina che il maestro usava per i lavori in bronzo e per i modelli statuari. Da allora egli meditò e “inventò” una forma d’arte nuova, sconosciuta, connessa implicitamente all’universo primordiale dove l’uomo imprimeva nella natura la sua personale visione del mondo che gli stava attorno. I “troni”, le “sedie”, le “sedie-trono”, i totem rappresentano, perciò, un mondo cosciente e preciso delle responsabilità dell’artista nella storia in quanto uomo-protagonista della cultura della sua terra.
Io credo che il lavoro di Vallazza debba essere interpretato alla luce di questa tradizione che egli ha fatto sua, pur se tale interpretazione prospettica delle sue sculture nulla toglie all’originalità della sua arte. L’immaginario di Vallazza pur rispettando e continuando i valori quintessenziali inerenti la tradizione della scultura del legno, è tuttavia radicato onestamente e pienamente nei bisogni, nelle possibilità e negli idioma estetici del tardo ventesimo secolo.
Più di quanto abbiano fatto molti altri scultori dei nostri giorni, egli ha fatto tesoro della ricchezza di idee, della libertà formale e delle intuizioni che sono inerenti alla nostra epoca. Tuttavia sarebbe inutile e sterile cercare di collegare il suo lavoro con qualsiasi lessico moderno maggiore. Sebbene un semplice sguardo ci informi della rigorosa contemporaneità dell’arte di Vallazza e dell’esistenza di una qualche connessione con il Cubismo, dell’esistenza di un qualche tributo al Surrealismo o ai Costruttivisti, queste possibili affiliazioni sono così tenui da svanire non appena le si analizza. Forse il solo predecessore le cui opere ci ritornano persistentemente alla mente, guardando le sculture di Vallazza, è Julio Gonzalez… non perché ci sia una qualche somiglianza visuale, formale o ideologica, ma precisamente perché entrambi rifuggono qualsiasi legame, tendenza o ideologia. Entrambi sono esclusivamente, pur spontaneamente e in modo innato, loro stessi.
Entrambi, più di un qualsiasi loro collega, seppero come assoggettarsi completamente alle imposizioni e ai valori intrinseci dei materiali da loro scelti (il ferro nel caso di Gonzalez, il legno per Vallazza) pur uscendo da questa dipendenza verso i loro materiali, completamente liberi e supremamente autonomi. L’assoluta originalità del lessico formale di Vallazza si sposa ad una inesauribile varietà correlata con un’ampia gamma di associazioni. Queste associazioni, a loro volta, permettono una personale interpretazione delle forme. In questo modo, lo spettatore è libero di seguire le proprie impressioni.
Vallazza, pur nella tradizionale conoscenza di un “mestiere”, che nella scultura in legno raggiunge talora il virtuosismo, rappresenta l’eccezione “moderna”, il caso addirittura unico, di un intagliatore-creatore, dotato di rare qualità d’interprete, maestro nell’arte difficile di proporre nuovi schemi di visione classica. Ogni immagine assume una dimensione poetica e un valore emblematico anche quando, nel recupero di certi elementi fantastici suggeriti dai bestiari romanici, Vallazza si avvicina a qualche modo dell’art brut, scoperto nei più autentici filoni dell’arte popolare da Dubuffet. È indubbio comunque che si tratta di scelte affini, nell’ambito di ricerche, spiegabili come reazioni ai rigori concettuali dell’arte concreta, del costruttivismo razionale. Scelte di un uomo, che considera il legno nodoso e venato, nella grande varietà dei colori e delle strutture, come il materiale più adatto a esprimere il proprio mondo fantastico. E comporre con più legni, di vecchie baite o di antiche case in demolizione, è per Vallazza un’arte raffinata, poiché si tratta di tavole o travi, corrose o scalfite, con solchi e piani, che rivelano fibre e venature, da sfruttare come un disegno, nato dall’interno, e da interpretare come una segreta scrittura, intensamente espressiva.
Con tanta varietà di legni Vallazza compone le figure degli incubi e dei sogni, le figure araldiche e quelle monumentali, seguendo la legge antica della frontalità. Il semplice (ma non lo è poi tanto) segreto di Adolf Vallazza consiste nel rispetto di certe regole tradizionali nel legare insieme, per mezzo di incastri, le parti mobili, nelle quali la scultura è divisa, adattandole in funzione costruttiva, anziché, secondo l’uso moderno, in funzione ludica. È possibile, in tal modo, analizzare la composizione nei suoi diversi elementi plastici: ricostruirla nella struttura monumentale di arcaica solennità, attraverso i vari legni squadrati a filo o intagliati nei loro volumi informali, talora con qualche accenno di decorazione in rilievo o incise, appena colorate o macchiate a chiaroscuro. Vallazza esprime in modo nuovo il sentimento della natura, la serenità dello spirito, il distacco contemplativo del solitario, che non si lascia ingannare dalle false apparenze. Le sue sculture attuali sono la conclusione poetica di una serie di negazioni, che lo hanno allontanato, attraverso una ricerca impegnata, da ogni traccia di manierismo figurativo di origine artigianale.
Adolf ha lentamente trovato se stesso nelle immagini di un mondo dimenticato o perduto, che viveva invece segretamente nel suo subconscio, per rinascere poi negli aspetti più misteriosi e più ricchi di fascino delle sculture, liberate dalle incrostazioni di un lungo tempo senza storia. La sua verità è una conquista, dovuta a una esperienza spirituale, ispirata umilmente dall’amore per la scultura in legno e umilmente vissuta nella solitudine di un paese di montagna, come se il mondo di oggi fosse soltanto una folle invenzione fantascientifica.